La diagnosi è da sempre stata considerata una premessa indispensabile per la cura dei disturbi mentali.
Il suo scopo è quello di fornire una descrizione della situazione in atto, rintracciare una causa del disturbo, come punto di partenza per la cura, considerata una fase successiva all’ atto diagnostico.
La terapia familiare invece, tende a mettere in discussione la visione classica, rifiutando di focalizzarsi direttamente sulla patologia intervenendo su di essa, ma si concentra sulle risorse dell’individuo.
Nella metà del secolo scorso, la visione tradizionale della cura dei disturbi mentali, viene ampliata progressivamente, includendo non solo il comportamento dell’individuo, ma la diade madre-figlio e la famiglia, che diviene via via il principale elemento di studio.
Cambia quindi la considerazione dei problemi mentali, che da disagio interno al singolo individuo, acquistano una funzione all’ interno del sistema familiare, che è in relazione ad esso.
Il malato quindi viene definito “paziente designato”, “capro espiatorio”, ad indicare che la malattia, non è una prerogativa esclusiva di chi la manifesta palesemente, ma il malato è solo colui che si fa portavoce del disagio familiare. Il sintomo diviene quindi un messaggio sul funzionamento familiare un segnale di malessere all’interno di un processo evolutivo bloccato e successivamente utile al mantenimento dell’omeostasi del sistema, dell’equilibrio cioè, seppur disfunzionale, che il sistema ha trovato attorno al sintomo.
Si capovolgono quindi i concetti di normalità e patologia, in quanto la malattia acquista una funzione all’interno della famiglia, ed assume un valore completamente differente da quello legato alla diagnosi classica, quello di una peculiare modalità comunicazionale, inseparabile dalle modalità comunicative tipiche del gruppo naturale in cui il sintomo si sviluppa.
Il terapeuta familiare non ricerca la conoscenza oggettiva del meccanismo patologico, in quanto tale operazione contribuisce alla sua stessa creazione, a fotografare una situazione che in realtà non è statica, ma in continuo divenire.
La visione classica della diagnosi è legata alla formulazione di un profilo psicologico relativo al funzionamento mentale dell’individuo, alla prognosi e ad un eventuale indicazione terapeutica specifica, a partire da una costellazione di sintomi, che vengono incasellati in un quadro sindromico predefinito, e che spesso indica anche le cause della patologia stessa.
La diagnosi nell’ottica sistemica, piuttosto che qualcosa di oggettivo diviene un’ informazione su quali sono le mappe che il terapeuta utilizza.
Non si tratta più di rintracciare le cause del disturbo, individuare i sintomi e racchiuderli in una sindrome, ma evidenziare piuttosto quali effetti, un determinato comportamento, elicita nel sistema familiare, in relazione e chi e a che cosa questi sintomi acquisiscono un valore ed un loro significato.
L’individuo sofferente non viene più isolato con la sua malattia, per analizzarne il comportamento, ma viene posto in relazione agli “altri” significativi.
Si avvia quindi un processo di decostruzione del sintomo e dei suoi significati, delle storie, dei tentativi di soluzione dei problemi, delle relazioni; il sintomo diviene un’ informazione sulla famiglia, in una visione trigenerazionale, un segnale all’interno di un sistema disfunzionale, un comportamento-comunicazione, e quindi una “necessità” per le specifiche interazioni di quello specifico sistema familiare.
I processi mentali, vengono dunque considerati non più un processo che si attua all’ interno della mente, ma qualcosa che si realizza nella relazione mente/contesto.
La circolarità e reciprocità delle comunicazioni annulla radicalmente ogni principio di attribuzione di colpa, causa e patologia individuale.
Ogni intervento per la risoluzione dei problemi individuali deve comprendere anche un cambiamento delle relazioni del soggetto.
Il terapeuta all’interno del processo di diagnosi e cura, non è più il depositario del sapere, ma colui che deve “perturbare” il sistema, mescolare le carte in gioco, essendo consapevole di quali sono le premesse che guidano determinati schemi di interazione.
Le descrizioni quindi non appartengono più al paziente, ma sono un processo che nasce nell’incontro paziente terapeuta, ed è riflessivamente collegato alle mappe del terapeuta. Secondo quest’ottica quindi la diagnosi ci dice molto del terapeuta e di quali categorie egli utilizzi.
Il clinico quindi non osserva il paziente, ma impara ad osservare se stesso nella relazione con il paziente.
L’ unità diagnostica per il terapeuta della famiglia non è l’ individuo ma neppure la famiglia, egli è consapevole che il modo in cui una famiglia si comporta, venga influenzato dal modo in cui egli interagisce con la famiglia, questa è quindi l’unità diagnostica. La diagnosi nell’ottica sistemica non deve rispondere quindi a criteri di oggettività e verità, semmai di utilità, per il sistema in cui viene utilizzata.
Il problema non è più il riconoscimento di una categoria nosografia, ma come descrivere e classificare i modelli abituali di comportamento risposta che vengono scambiati tra le persone. La causa delle azioni di una persona viene spostata dalle sue caratteristiche personali, al contesto entro cui essa vive.
Fare una “distinzione diagnostica” implica la preesistenza di precise premesse per cui, individuata una tipologia, andiamo a cercare con l’ ausilio del colloquio, quelle informazioni sulle relazioni familiari ed il contesto di apprendimento che sono attinenti alla diagnosi fatta, e che possono guidarci nella creazione delle nostre ipotesi. La domanda a cui bisogna rispondere è quindi se esista un sistema di comportamenti interattivo che richieda o provochi in uno dei membri del sistema un comportamento classificabile come patologico.
Si passa quindi da una visione statica del sintomo ad una visione evolutiva, in cui si intersecano aspetti psicologici biologici e sociali.
L ’attenzione ai sintomi, ed al significato relazionale che possono avere è quindi uno dei possibili vertici di osservazione che possiamo utilizzare in terapia.
Una determinata sintomatologia, può comparire casualmente all’ interno di un sistema familiare ed assumere un valore interattivo, attivandosi cioè tutte le volte che si verifica il tipo di situazione che lo ha elicitato.
Il sistema impara dunque ad usare l’ intero modello interattivo di cui il sintomo fa parte, per affrontare le crisi che si verificano al suo interno.
L’interrogativo sul perché di quel sintomo, lascia quindi il posto alla spiegazione del come i comportamenti dei membri del sistema contribuiscono al mantenimento del comportamento del membro sintomatico. Individuati i meccanismi interpersonali di mantenimento del sintomo la terapia ha l’ obiettivo di perturbare il sistema, spezzando i meccanismi di rinforzo impedendo alla famiglia di servirsi del sintomo, ma utilizzare strategie più utili e funzionali per affrontare le crisi.
Ciò non significa comunque che la diagnosi non venga presa in considerazione, l’attenzione alla diagnosi, è una delle tante mappe che un terapeuta può avere, e che può aiutarlo nella formulazione di un ipotesi di funzionamento del sistema familiare e di un progetto terapeutico, permettendo una raccolta di informazioni mirata. Bisogna però fare attenzione a non cadere nell’illusione di oggettività che un sistema diagnostico può offrire, perché si rischia di creare definizioni rigide senza tener conto della persona che abbiamo davanti.
Le scelte diagnostiche che operiamo dipendono da vari fattori, quali la fase del processo in cui pensiamo di essere, dal contesto in cui lavoriamo, dalle idee che abbiamo sulla situazione, dal sistema che abbiamo davanti, dalle nostre premesse e dalle storie che ci portiamo, dai presupposti teorici che ci guidano.
Le ipotesi patogenetiche del modello sistemico, partono da specifiche teorie sul funzionamento del sistema familiare, e si iscrivono in un processo evolutivo che prende in considerazione diversi aspetti tra cui:
-Il ciclo di vita familiare
-I processi di individuazione dei suoi membri
-I percorsi di svincolo dalle famiglie d’origine
Tutti gli eventi legati al ciclo di vita, possono infatti provocare una rottura dell’ equilibrio con il conseguente sviluppo di sintomi.
Tale sistema teorico può essere integrato al classico modello diagnostico nella misura in cui una diagnosi può servire come punto di partenza per il lavoro di del clinico, tenendo in considerazione il contesto di insorgenza del comportamento disfunzionale, le ipotesi individuali, il contesto familiare o di coppia in cui il sintomo viene rinforzato.
Il comportamento caratteristico di ogni individuo è quindi la risultante dei diversi contesti di apprendimento che ha interiorizzato, e che condizionano le sue premesse e la sua visione del mondo.
Angela Marchetti psicologa – psicoterapeuta – psicotraumatologa EMDR